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“Abbiamo perso la buona Educazione”

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Riceviamo e pubblichiamo.

* * *

Conosco una stimabile e benvoluta coppia di mezza età, i cui figli, ormai grandi, sono per me annoverabili tra i bravi ragazzi, sempre gentili e corretti, e per quanto ne so diligenti e scrupolosi sul lavoro, e vi sarebbero dunque buoni e molteplici motivi perché i loro genitori ne siano più che contenti, se non orgogliosi, e credo che in fondo sia effettivamente così.

Succede, purtuttavia, che la loro madre si dispiaccia talvolta di averli cresciuti nella “bambagia”, assecondandoli troppo, e senza responsabilizzarli nel modo dovuto, e si chieda altresì dove può aver sbagliato per non essere riuscita a trasmettere loro il convinto e puntuale rispetto di quelle usanze e di quei valori, anche molto semplici, che vigevano nella sua famiglia d’origine.

Vedi, ad esempio, il ritrovarsi al pranzo della domenica, trascorrere possibilmente uniti le principali ricorrenze dell’anno, non trascurare le “feste comandate”, quali si usava chiamarle, o spendere con giusta oculatezza e guardare anche al risparmio, pur lungi dalla tirchieria, così come l’avere un po’ di attaccamento e cura per le cose avute in eredità. Sono tutti “pezzettini” che presi singolarmente possono apparire irrilevanti, e superati, ma che messi insieme offrono un buon aiuto alla “tenuta” della famiglia (per chi ovviamente crede nella sua funzione).

Detta signora, nel cercare una spiegazione a quel suo presunto “insuccesso” educativo – cui non riesce ad assuefarsi, sembrandole anche di aver tradito gli insegnamenti dei suoi “vecchi”, ai quali era molto legata – tende a “colpevolizzarsi”, per non aver svolto al meglio, in una col marito, il proprio compito genitoriale, in maniera cioè sufficientemente ferma e decisa, e all’occorrenza intransigente.

Può esservi certamente del vero in questa sua interpretazione, ma io credo che il fenomeno, se così lo si può chiamare dal momento che il caso in questione non mi pare un fatto isolato, abbia a monte cause e motivazioni più ampie e generali, che oltrepassano spesso i confini famigliari, pur essendo indubbio che le nostre famiglie hanno subito in questi decenni profonde trasformazioni, sia nel loro assetto che nei rapporti interni.

Un tempo la figura paterna aveva un ruolo preciso e riconosciuto, per non dire preminente, che già di per sé conferiva autorevolezza, e il farsi valere coi figli risultava quindi molto più semplice e naturale, così come il saper dire loro dei “no” quando ritenuto opportuno, e non era altresì infrequente che noi nipoti dessimo del “voi” ai nonni, e talvolta anche agli zii, in segno di deferenza ma anche a significare che difficilmente li avremmo contestati, e dunque la “forma era allora anche sostanza”.

D’altronde, soltanto con un tale “ordine” potevano probabilmente reggersi nuclei famigliari spesso alquanto numerosi, e per noi ragazzi era del resto altrettanto normale rivolgersi con il “lei”, e anche con molto rispetto, ai propri insegnanti, sin dalle prime classi, per portare un esempio tra i tanti di come esistesse una sostanziale simmetria e specularità tra le regole che vigevano dentro e fuori la famiglia, il che non poteva che agevolare il compito formativo dei genitori, atteso che i “dettami” da loro rivolti ai figli trovavano conferma e continuità fuori dalle mura di casa.

In buona sostanza, il modello di società allora operante lambiva la famiglia, e viceversa, in una sorta di reciproca e fruttuosa sinergia. Poi arrivò l’epoca del “vietato vietare”, in cui vennero messe in discussione molte “autorità”, e anche il ruolo genitoriale non ne uscì indenne, e ci si avviò verso una società destrutturata e “liquida”, come si usa chiamarla, dove tutto si può annacquare e diluire, fino a disperdersi, compresi i valori e i principi di un tempo, cui anche le famiglie, e gli stessi giovani, potevano ispirarsi, e anche “aggrapparsi”.

C’è chi vede nel benessere la principale origine e causa dell’odierno stato di cose, ma a me sembra una chiave di lettura piuttosto semplicistica – anche perché ricordo compagni di scuola appartenenti a ceti agiati, nella cui casa si respirava un’aria di regole, fermezza e disciplina – e propendo invece per una pluralità e concomitanza di fattori, via via succedutisi negli anni, sui quali tuttavia le opinioni possono divergere, anche per ragioni ideologiche, e l’entrarvi nel merito ci porterebbe inutilmente lontano, ed essere semmai fonte di polemiche.

Peraltro ogni analisi e teoria in materia lascerebbe, a questo punto, il “tempo che trova”, mentre invece, senza scomodare l’una o l’altra tesi, basterebbe forse che più d’uno si interrogasse alla stregua della signora di cui dicevo, perché potrebbe rivelarsi un buon primo passo verso il mettere “in salvo” quelle consuetudini e tradizioni che hanno proficuamente accompagnato tante generazioni, e che dovrebbero esserci talmente care da non volerle perdere, e da farle anzi diventare parte irrinunciabile della nostra identità.

 

(P.B.)

 

 


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