“Che il mondo si trovi in una condizione di male è un lamento vecchio quanto la storia, vecchio anche quanto la poesia, più vecchio della storia, vecchio anzi quanto la più vecchia di tutte le leggende poetiche…” (I. Kant)
Non smette di stupire e mietere vittime il “mercato” della dipendenza patologica: alle vecchie e piùomeno conosciute dipendenze se ne aggiungono di nuove, con fenomeni non del tutto assimilati e compresi.
Il dato più eclatante continua ad essere il “silenzio politico” intorno a temi ed argomenti che riguardano tutti, un silenzio che la dice lunga sul disinteresse e disimpegno di una civiltà che per molti aspetti sembra prendere pieghe molto incivili.
È necessario considerare il problema della dipendenze (droga, gioco d’azzardo, internet…) come riflessi del fenomeno Uomo, con le sue debolezze, le sue fragilità, le sue paure, ma anche le sue patologie, le sue scelte, la sua cultura, i suoi bisogni di sicurezza o di dipendenza.
Spesso, inoltre, l’attenzione è rivolta all’“oggetto” della dipendenza, qualunque esso sia, (droghe, alcol, gioco d’azzardo, internet, TV, sesso, etc.), arrivando a demonizzare l’oggetto stesso della dipendenza e riducendo l’uomo o a semplice vittima o, al contrario, connotando la dipendenza come “vizio”.
A ben guardare invece la piaga è dentro la nostra cultura e la nostra società, dentro ai nostri vuoti e alle nostre assenze, in una cultura che ostenta la superficie, esclude le differenze, immagina la libertà infinita e partecipare senso e significato è una questione ridotta al privato e alla dimensione individuale.
Don Dossetti che da trent’anni si occupa di dipendenze afferma che dietro ad ogni comportamento dipendente vi è un bisogno reale, una domanda vera che produce risposte sbagliate
L’oarcolo di Delfi invitava e spronava l’uomo al conosci te stesso, perchè la conoscenza è confine e dove c’è conoscenza c’è gioco-forza compromissione affettiva, quell’affetto che nasce dall’interiorità e produce perciò ricerca di senso, ed ogni domanda sulla condizione dell’Uomo è una richiesta “spirituale” cioè una richiesta di senso.
Ma in una cultura che produce differenze e sprona all’individualismo più sfrenato dov’è il senso?
Nella ricerca di una cultura del limite dovrebbero adoperarsi tutto coloro che promuovono cultura ed educazione perchè il “limite e la fragilità non sono caratteristiche solo di qualcuno ma di tutti e l’orizzonte delle dipendenze è quello dentro a cui viviamo tutti” (cit. Don Dossetti, Dalla rete alla nube).
Come fenomeno – circoscritto nel patologico – la dipendenza viene quindi delegata ai Servizi presenti sul territorio (Sert, Associazioni, Comunità, Servizi Sociali…), con un costo per la collettività non certo esiguo, ma laddove non si “vogliono” dare risposte (perchè altrimenti sono i comportamenti di tutti ad essere messi in discussione) va bene ritagliare uno spazio “altro” a chi, per diverse ragioni, ha incarnato nei propri comportamenti il “peggio che si può trovare”, quello additato come fuorviante, sbagliato, degenerato.
Certo, la responsabilità del singolo è altissima, le scelte che ha compiuto, la strada che ha intrapreso, i comportamenti che ha adottato sono una libera scelta a cui solo lui potrà rispondere e fare ammenda.
Tuttavia, è innegabile una responsabilità collettiva verso comportamenti che ci vedono tutti coinvolti e che mietono vittime laddove è possibile fare breccia in una “fragilità” che da una semplice “crepa” sprofonda nella voragine della malattia patologica.
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Ciò premesso, abbiamo approfondito il tema rivolgendoci a don Alberto Nava, parroco di Vetto, con una opinione e un commento ad un fenomeno che non accenna minimamente a diminuire ma che anzi, in molte e svariate forme, prende pieghe preoccupanti e colpisce tutti, ad ogni età ed in ogni famiglia.
«Premetto a queste mie righe di commento a quanto scritto sopra, che non sono un esperto in materia, le mie pur brevi riflessioni sono dettate dall’esperienza, dalla semplice osservazione di ciò che mi accade intorno.
Mi riallaccio all’ultima frase, alla citazione di don Dossetti sulla fragilità come esperienza di tutti noi comuni mortali.
Se quello delle dipendenze è l’orizzonte dentro cui tutti viviamo, perché in fondo tutti noi soffriamo di qualche dipendenza: dall’alcool, da qualche sostanza, dalla Tv, da internet o dal telefonino, ne deriverebbe che il tema delle dipendenze mi riguarda ed è un problema da cui non posso tirarmi fuori. Eppure vedo intorno a questo problema ancora tanta omertà, tanta paura, ci spaventa e pensiamo che non parlandone non ci toccherà.
Mi sembra la politica dello struzzo che preferisce mettere la testa dentro la sabbia. Così facendo non vediamo, non tocchiamo, ma il problema resta lì, come prima.
Il problema dell’alcolismo è percepito soprattutto in montagna come un fatto normale. Ma se è vero che è più buono il parmigiano-reggiano di montagna, non è più bello o migliore, l’alcolista o il tossicodipendente di montagna. Non vedo molte differenze da quelli della pianura. I meccanismi sono gli stessi, le difficoltà e le sofferenze pure.
È un problema culturale, se a quelli della mia generazione poteva capitare come “incidente” che si ci ubriacasse a fine di qualche serata passata con gli amici; ora si ci ubriaca all’inizio della serata per poter “sballare” prima e meglio. Si sballa per divertimento, ogni fine settimana.
Non è tante volte un problema che riguarda solo i giovani anzi, più volte sono gli stessi problemi che i giovani percepiscono, vedono in noi adulti. Potremmo scrivere a lungo nel cercare di fare mille analisi, oppure molte righe di descrizione di questi fenomeni, vorrei piuttosto provocare una riflessione nelle nostre comunità sia religiose che civili. Soprattutto credo sia utile guardare avanti, al futuro, per cercare a tentoni delle soluzioni.
Quale soluzioni? Nessuno ha ricette pronte all’uso, nessuno possiede la bacchetta magica per togliere o eliminare questi fenomeni, penso sia però necessario se possibile, prevenire piuttosto che curare. Allora le questioni vanno poste a livello educativo piuttosto che repressivo o di contenimento. Parlando chiaro: non si tratta di vietare certe feste, di “demonizzare” le discoteche ma piuttosto vedere come eliminare certe contraddizioni, certe derive. Si tratta di “convertire” le nostre culture che legittimano l’uso di alcool o di droghe come necessarie per potersi divertire, sballare anche se fosse per una o due sere la settimana.
È necessario convertirci dall’individualismo dicendo: ‘Questo non mi riguarda o non interessa la mia famiglia’. Un tentativo di ricerca di soluzioni è possibile solo se si passa dall’indifferenza al dire: ‘M’importa, m’interessa’. La cultura individualistica ha contagiato anche i nostri piccoli paesi; ci siamo tutti chiusi nel privato pensando che bastava stare bene noi perché tutti stessero bene intorno a noi. Occorre che ci riprendiamo una certa “voglia di comunità” che mi sembra stiamo un po’ perdendo. È difficile interessare, far partecipare, far “uscire di casa” per problemi che riguardano il “bene comune”.
Bisogna creare un tavolo di lavoro dove diverse realtà: parrocchie, famiglie, Comune, scuola, Croce Verde e altre agenzie educative o associazioni si mettano insieme per cercare di unire le forze e soprattutto per pensare, progettare delle strategie facendosi aiutare da chi ha già delle esperienze in questi settori come il Ceis, Cps o comunità Papa Giovanni XXIII ecc..
Sono alcune riflessioni – conclude don Alberto Nava – a commento per produrre una riflessione, un dibattito ma soprattutto qualche azione positiva, e non semplicemente repressiva per il nostro territorio montano»