Riceviamo e pubblichiamo
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Lettera aperta sui corsi di italiano agli stranieri di Castelnovo ne’ Monti
Non so bene se si tratti di mobbing, ma direi che gli somiglia parecchio.
Mi riferisco alla situazione in cui mi sono trovata a lavorare nell’anno scolastico in corso.
Non avrei voluto arrivare a parlarne pubblicamente, perché, nelle mie intenzioni, al centro di tutto avrebbe dovuto esserci la risposta ai bisogni dei miei studenti (e i miei studenti stessi), non certo io. Pertanto ho resistito, sempre sperando in un cambiamento, sempre sperando nella presa di coscienza dell’assurdità e ingestibilità di questi corsi di italiano per gli stranieri – così come sono diventati nel passaggio da Ctp a Cpia – da parte dei miei superiori e forse anche degli amministratori.
Speranze andate deluse, purtroppo.
Ma facciamo un passo indietro e proviamo a mettere in fila gli eventi.
Per chi non lo avesse capito io, da dieci anni, insegno italiano agli stranieri adulti (dai sedici anni di età in su) residenti in tutto il territorio montano; si tratta di corsi statali, non è un ente privato a gestirli e non è volontariato.
Fino al 2013/2014 i corsi venivano erogati e coordinati dal Ctp (Centro Territoriale Permanente per l’educazione degli adulti) di Castelnovo ne’ Monti, in un primo tempo facente parte della Direzione Didattica e poi passato all’Istituto Comprensivo Bismantova; il Ctp era dotato di un’applicata di segreteria e di una bidella, oltre che dell’insegnante.
Quindi: un ufficio funzionante per la raccolta delle iscrizioni, la preparazione del materiale didattico e per far fronte a tutta la parte burocratica; il personale Ata per le pulizie e, appunto, l’insegnante.
Ma come e quando comincia questa storia?
Si era arrivati all’istituzione del Ctp di Castelnovo nel 2005, dopo un lungo percorso iniziato negli anni Novanta e portato avanti soprattutto dall’ex preside Sergio Tamagnini (che davvero ai corsi ha dato l’anima!). Per non dilungarmi troppo, invito chi volesse approfondire a leggere il libro di Sergio Tamagnini “Un Direttore, una Scuola, un Territorio” al capitolo 13, dove è ben descritta la storia dei corsi fin dalla loro nascita.
Con numeri, nomi, collaborazioni, reti che si erano via via andate creando tra i vari enti e che erano arrivate, con gli anni, a coprire un po’ tutto il territorio montano.
Gli incontri e i contatti con i presidi, gli amministratori, gli assistenti sociali, persino con i preti del Crinale, le collaborazioni davvero proficue con Enaip di Castelnovo, con le biblioteche di Casina e Castelnovo, con l’Ufficio Immigrati, con il gruppo “Donne del Mondo” (Clara Vassallo) erano ormai cosa ordinaria.
Anche la gestione dei corsi aggiuntivi finanziati con i fondi provinciali o europei (Fei) e affidati ad altri insegnanti (i bravi insegnanti pensionati di Toano, poi Luisa Guidetti e Sabina Bedini) rientrava in questa rete. Si era riusciti a dislocare i corsi con il tempo nei comuni di Toano, Villaminozzo, Vetto, Collagna, Busana, Carpineti, Casina, il tutto per andare incontro alle esigenze degli stranieri che lì abitano e lavorano, e che, però, viste le difficoltà dei trasporti e della viabilità in montagna, oltre agli orari di lavoro, in altro modo non avrebbero potuto partecipare ai corsi di Castelnovo. Come può una badante che lavora a Vallisnera o a Valbona o a Cinquecerri scendere a Castelnovo per le lezioni? O un indiano che abita a Casalino di Ligonchio e lavora in fabbrica, come fa? O una marocchina senza patente di Vetto con dei bambini piccoli?
Noi montanari amiamo il nostro territorio, ne apprezziamo le bellezze, certo, ma ne conosciamo bene anche le difficoltà. Per questo l’impegno da parte dei miei ex dirigenti scolastici (Sergio Tamagnini, Ivano Vaccari e Carla Canedoli) per portare il servizio dei corsi nei piccoli centri era stato notevole e determinato. Certo, voi direte: se uno straniero abita a Secchio, perché dovrebbe voler venire a studiare italiano? Oltre al fatto che se non si sa la lingua si è tagliati fuori da buona parte della società e si dipende sempre da qualcun altro (a volte connazionali appena un po’ più eruditi), lo studio dell’italiano è obbligatorio per chi voglia poi fare richiesta della Carta di soggiorno. Gli extracomunitari (quindi non i polacchi o i rumeni, per esempio) devono perciò frequentare almeno per cento ore (oppure, se già conoscono la lingua, ricevono dei crediti in base alle loro competenze e le ore possono scendere anche a quaranta o meno) e poi devono sostenere un test finale dopo il quale riceveranno un certificato indispensabile, appunto, per la richiesta del Permesso a tempo indeterminato. Di più: il Permesso di soggiorno ora è “a punti”, come la patente, punti che si “aggiungono”. Chi frequenta i corsi matura più punti.
Pertanto, dopo anni di Ctp (con un numero di iscritti in montagna che variava tra i 150 e i 250), lo scorso anno si è deciso di dare seguito alla Circolare Ministeriale 36 del 10 aprile 2014 istituendo il Cpia provinciale (Centro Provinciale per l’Istruzione agli Adulti).
Che se è legge, deve certo essere attuato. Non si discute.
Però, sono convinta che le modalità di attuazione dovessero non prescindere dal buon senso, in modo da dare continuità a ciò che si era costruito e magari migliorarlo, evitando di distruggerlo. Ecco: è il buon senso che è mancato.
Convinta che la realtà della montagna meritasse molta attenzione e, soprattutto, chiara conoscenza, a giugno dello scorso anno avevo volontariamente partecipato all’ultimo Collegio dei docenti del Ctp di Reggio Emilia onde illustrare ai colleghi lo stato delle cose dei corsi di Castelnovo.
A fine luglio, poi, avevo chiesto di poter parlare con il futuro nuovo Dirigente del nuovo Cpia e, con me, era scesa la professoressa Sabina Bedini che mi aveva aiutata nel chiarire la nostra situazione.
Avevo poi scritto diverse mail sia al nuovo Assessore alla scuola di Castelnovo sia al nuovo Dirigente, suggerendo di cercare di mantenere i corsi collegati all’Istituto Comprensivo Bismantova, o, comunque, ad una scuola, perché senza un ufficio (cioè: con l’ufficio a Reggio, in Via Turri!) diventava davvero complicato fare fronte alla raccolta delle iscrizioni e a tutta la parte burocratica, oltre che alla preparazione del materiale didattico da parte dell’insegnante.
Era impossibile stipulare una convenzione con il Comprensivo in modo da continuare come avevamo sempre fatto (e avevamo sperimentato che funzionava)?
Non so cosa sia successo, non so il perché di certe scelte, so però che, a Lucca, il Cpia è partito nello stesso periodo mantenendo in montagna, a Castelnuovo Garfagnana e a Piazza al Serchio, esattamente lo stesso assetto dei vecchi Ctp (perché la montagna non è pianura, e non è pedecollina, e i lucchesi si vede che ne sono più consci dei reggiani), mentre a Reggio si è voluto accentrare tutto in Via Turri, lasciando in montagna soltanto… me e la bidella.
Probabilmente, per il Cpia di Reggio si è voluto prendere a esempio il Cpia di Bologna città, ma noi non siamo Bologna città.
Così mi sono ritrovata con un’aula, la bidella (che, per mia fortuna, è una gran brava ragazza) e… basta. Niente ufficio: è a Reggio in Via Turri; niente fotocopiatore; niente telefono; niente internet. Il mio computer personale e il mio cellulare. A spese mie.
E la gente che telefonava per informarsi sui corsi e sulle iscrizioni.
E io (e la bidella) per la prima quindicina di settembre tutti i giorni a Reggio per le riunioni di inizio anno, mentre su non c’era nessuno a fare accoglienza.
Poi, quando finalmente ci si è decisi a lasciarci rientrare in sede, siamo state lì, a scuola, per gli altri quindici giorni di settembre, ad aspettare chi si voleva iscrivere, rimandandoli in qualche negozio a fare le fotocopie dei documenti perché eravamo sprovviste di tutto.
Poi ho cominciato le lezioni, ovviamente in pluriclassi, perché, come ben sanno gli altri insegnanti che hanno lavorato con me sugli stranieri, qui da noi è impossibile strutturare classi per livelli, proprio per quei problemi di orari e di trasporto che complicano tutto.
Ho comunque cominciato le lezioni, decidendo di rimanere quattro giorni a Castelnovo (proprio per poter raccogliere anche le scrizioni) e di spostarmi solo a Casina il venerdì, eliminando, di fatto, i corsi che da anni portavamo avanti negli altri centri.
Ho lavorato in quelle condizioni, con la sola possibilità (da novembre) di un buono per le fotocopie in un negozio (che, però, è appunto un negozio, con suoi orari).
Mi sono fermata a scuola fuori dalle mie 24 ore settimanali per stendere e aggiornare gli elenchi e per fare tutto quel lavoro che prima mi faceva l’applicata di segreteria; mi sono sempre fermata per la programmazione (ho lì, nella mia aula, tutti i miei libri) quando alcune mie colleghe di Reggio avrebbero la pretesa di vedermi scendere in Via Turri ogni mercoledì mattina (tutte le settimane!) per poi tornare su e andare a fare lezione dalle due alle sei del pomeriggio.
Il motivo? Devo ancora capirlo, perché io insegno a Castelnovo, non a Reggio. E il mio Dirigente mi aveva detto che sarei potuta scendere solo una volta al mese per un collegio. Cosa più sensata.
Nel frattempo, dagli Istituti superiori mi sono arrivati, via via, dei ragazzini, alcuni dei quali mi stanno in classe per dieci ore alla settimana.
Tutto bene, certo: è giusto, perché con gli Istituti superiori si è sempre collaborato, tanto che per diversi anni sono entrata al Cattaneo e un anno anche all’Ipsia. Però.
Però resta il fatto che la situazione è da accampati, da profughi, e se sono riuscita a raccogliere le iscrizioni, a contattare le persone, a rispondere ai loro bisogni, a fare lezione è solo perché ci ho messo del mio. Compresa la ricarica del cellulare.
Ho risposto e cercato di dare spiegazioni a tutti, e questo significa stare al telefono con l’assistente sociale, o scambiare mail con un ufficio dell’Ausl per capire dove indirizzare chi deve essere certificato come analfabeta. Oppure rispondere a quesiti posti da miei utenti all’Ufficio immigrati. Oppure, tenere i contatti con la professoressa che si occupa degli stranieri alle Professionali.
Mi è poi successo, e non credo sia finita, di dover fronteggiare situazioni abbastanza pesanti, tanto che una volta ho persino chiamato i carabinieri.
Perché io, lì, sono sola. C’è la bidella, per fortuna, ma è una donna, come me. Siamo sole, e chi arriva lo percepisce. E quando si esce di notte, in inverno, nel cortile vuoto, non è bello.
Chi arriva sa che non c’è più la porta aperta che collega l’aula con la scuola lì di fianco; sanno che io non posso dire che “chiamo il dirigente” o che li “mando in ufficio”.
Per certe culture, poi, che io sia lì da sola, e che sia donna, può significare prendersi la libertà di urlarmi in faccia se provo a spiegare che no, non posso iscriverli, perché no, non posso prendere gli analfabeti totali e che no, non possono sostenere il test se non sanno la lingua e che no, da noi i certificati non si comprano, e che no, non posso aiutarli e chiudere un occhio perché conoscevo un loro parente…
Non avere il supporto di un ufficio qua in montagna rende tutto più difficile.
Mi è capitato di andare a scuola con la febbre e con l’influenza, prima di Natale, per evitare di telefonare in ufficio a Reggio e aspettare loro decisioni in proposito. Ho pensato ai miei studenti che si erano fatti chilometri e chilometri di strada per poi, magari, vedere la porta chiusa perché non si era trovata una supplente in tempo.
Poi ho avuto dei problemi seri e mi sono dovuta assentare per più di quindici giorni.
La supplente si è trovata (anche molto brava e ben accetta dagli studenti), ma, avendo tutti ormai il mio numero di cellulare, in ospedale sono stata tempestata di telefonate e messaggi per i più svariati motivi.
Questo ti porta poi a rientrare al lavoro anche se non stati esattamente bene, perché il tuo senso del dovere non ti lascia in pace e non ti senti a posto.
E perché sai quanto bisogno di risposte hanno i tuoi utenti (che non hanno certo colpa del malfunzionamento logistico dei corsi).
Poi ti capita di sfogarti su un socialnetwork, dopo aver provato in mille modi a chiedere aiuto a destra e a manca e aver ricevuto soltanto vaghe promesse e anche un po’ di compatimento.
E dopo essere stata definita ripetutamente “fannullona” da qualche collega che a Reggio non mi vede tutte le settimane (ma perché non salgono loro? E pure per i Collegi?), ti capita, dicevo, di scrivere pubblicamente che “del corso per stranieri di Castelnovo non gliene importa niente a nessuno” (e ho scritto a nuora perché suocera intenda, che so bene come funziona facebook!) e qualcuno si sente punto nel vivo.
Soprassiedo sui contenuti dei commenti in coda a quel post da parte di una mia collega, ma il tenore era questo: noi insegnanti dobbiamo essere come Emergency o come don Milani e, se non abbiamo gli strumenti, dobbiamo comunque fare fronte a tutto con la nostra buona volontà, approntando tutti i mezzi che ci è possibile e via di questo passo. Ho tentato di spiegare che, intanto, non sono un prete (e per di più un po’ santo), che non sono un medico di Emergency, che il volontariato è altra cosa e che se faccio qualcosa in più per i miei studenti è affar mio, ma che ciò che è indispensabile per il funzionamento di una scuola lo si deve pretendere!
Inutile mettersi a raccontare dei viaggi verso Collagna, negli anni scorsi, con la mia macchina strapiena di gente raccolta durante il viaggio e poi riportata a casa (a volte anche fino a Canova di Ramiseto). O dei passaggi da Talada verso Cervarezza, anche con la neve, sempre per raccogliere le persone. O dei ragazzi profughi africani seguiti fino alla metà di agosto nella canonica di Felina.
Inutile raccontare delle persone ospitate a volte anche a dormire a casa mia; inutile raccontare dei compiti corretti ai ragazzini via mail, delle tesine fatte insieme, delle vere e proprie ore di lezioni private gratuite per ragazzi e ragazze che poi continuavano il loro percorso anche fino all’università.
Inutile raccontare delle tante iniziative extrascolastiche organizzate; inutile raccontare di averci sempre dato l’anima. Perché sono state scelte mie personali che nessuno mi ha chiesto. Ma sulle quali non accetto prediche né insegnamenti.
Bene, ormai siamo alla conclusione dell’anno scolastico. Il prossimo anno io non ci sarò più, quindi avrei potuto starmene zitta e tranquilla e lasciare che le cose andassero per la loro strada.
Tanto, cosa me ne viene in tasca?
Ho passato momenti bruttissimi in cui mi sono trovata a chiedere scusa alle persone per il disagio, per la mancanza di tutto; tra chi arriva ci sono architetti, ingegneri, insegnanti… mi sono vergognata spesso e ho chiesto scusa, anche se la colpa non era certo mia.
Potevo chiudere l’anno e starmene zitta.
Ma ci sono le persone, e sono persone che hanno bisogno, molto bisogno. Non perché sono povere (ci sono anche diversi benestanti), ma perché chi non conosce la lingua del paese dove vive è in una condizione di fragilità e inferiorità.
E non è giusto che non abbia i servizi che lo Stato è tenuto a fornire.
Non è giusto che li abbia raffazzonati e risistemati alla bene e meglio dalla buona volontà di un’insegnante.
Quindi chiedo a chi (in Provincia? In Provveditorato?) ha deciso per questa strutturazione del Cpia in montagna, di informarsi meglio, di rivedere la situazione, di impegnarci un po’ più di tempo e un po’ più di cuore.
Tra l’altro, nell’Annuario provinciale risultano, nel 2013/2014, solo una cinquantina di iscritti al Ctp di Castelnovo, mentre nello stesso anno solo io, senza i corsi Fei, ho testato e certificato più di settanta persone (e ne ho avute circa 150 ai corsi).
Non sto accusando nessuno, perché davvero non so cosa sia successo a monte, tuttavia sono sicura che se mi si fosse dato ascolto e si fosse ragionato usando il vecchio sano metodo “vedere, giudicare, agire”, invece di partire in tromba senza valutare l’impatto di certe scelte, si sarebbe evitato il terribile disagio che ho vissuto e che sto vivendo io e che, di conseguenza, hanno vissuto anche i miei studenti.
Ho sempre pensato che il tempo, al di là del ricevere o meno uno stipendio, non lo si debba mai sprecare. Questo ho cercato di fare in questo durissimo anno scolastico: evitare azioni inutili e concentrare le mie poche risorse e le mie forze in azioni sensate e produttive.
E visto che don Lorenzo Milani è stato, suo malgrado, inutilmente tirato dentro queste piccole, meschine diatribe tra poveri insegnanti, concludo con le sue parole: “Se la vita è un dono di Dio non va buttata via e buttarla via è peccato. Se un’azione è inutile, è un buttar via un bel dono di Dio. E’ un peccato gravissimo, io lo chiamo bestemmia del tempo. E mi pare un cosa orribile perché il tempo è poco, quando è passato non torna.”
Vi prego: che qualcuno si occupi di rivedere la situazione dei corsi di italiano di Castelnovo.
Normanna Albertini